REGGIO CALABRIA – «Quella piemontese e torinese è una ‘ndrangheta visibile». Così le motivazioni della sentenza della Cassazione del processo Minotauro, pronunciata lo scorso 23 febbraio dai giudici della seconda sezione penale della Suprema Corte nei confronti di 50 imputati del troncone abbreviato, già giudicati in via definitiva. I giudici del Palazzaccio, in oltre 140 pagine, spiegano perché, contrariamente alle richieste che aveva avanzato il Procuratore generale della stessa Corte, hanno condannato i boss della ‘ndrangheta operante all’ombra della Mole. «La ‘ndrangheta in Piemonte – si legge nelle articolate motivazioni – è una mafia molto radicata e ciò è provato dalla gelosa protezione delle zone di influenza dei singoli locali da possibili invasioni altrui». Il metodo usato per compiere le azioni criminose a Torino e provincia, dalle estorsioni alle minacce, oltre a creare un clima di sottomissione e omertoso, hanno fatto accertare agli investigatori che non si discosta per niente dall’azione compiuta dai criminali in Calabria.
È uno dei motivi principali per cui i giudici della Cassazione non hanno accolto le principali tesi difensive, che hanno tentato di alleggerire tale fattispecie, rimarcando il fatto che invece si trattava più di una montatura mediatica. Quando è scattata la maxi operazione Minotauro, precisamente l’8 giugno del 2011, la ‘ndrangheta in Piemonte era senza alcun dubbio una organizzazione che faceva paura. Sarebbe divenuta molto presto più forte perché – sottolineano gli stessi giudici supremi «stava creando una Camera di Controllo, una super struttura come già accaduto in Lombardia, con rappresentanti di tutti i locali per ottenere ancora più autonomia rispetto alla Calabria. La concreta capacità intimidatoria dell’associazione mafiosa è derivata da un lato dall’originaria filiazione e dal perdurante legame con la ‘ndrangheta storicamente insediata in provincia di Reggio Calabria di cui ha mantenuto modalità organizzative e comportamenti tipicamente mafiosi dall’altro si è autonomamente e concretamente manifestata sul territorio realizzando nelle comunità locali quelle condizioni di assoggettamento e di omertà che caratterizzano la fattispecie di 416 bis.
I commercianti erano talmente impauriti che per loro era diventato consueto non esigere il pagamento». Complice di un certo strapotere il fatto che «le vittime non hanno denunciato in nessun caso se non dopo l’arresto dei loro estorsori». Nelle pagine delle motivazioni della sentenza definitiva viene confermata l’autonomia dei clan malavitosi del nord rispetto alla ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, luogo di origine di molti degli affiliati. Tutti però mantenevano i contatti con la “casa madre” ma non erano solo dei “meri bracci esecutivi”, avevano libertà di «individuare propri obiettivi e agire di conseguenza nei modi ritenuti più opportuni ed efficaci». Per mantenersi tale “lusso” agivano in modo solidale nelle loro azioni e, ad esempio, quando bisognava fare le “collette” per raccogliere denaro per i carcerati e le loro famiglie, erano pronti e difficilmente qualcuno si tirava indietro. Nelle pagine delle sentenza vengono riportati alcuni casi emblematici, utili a chiarire il ruolo svolto da alcuni capibastone. È il caso di due degli imputati condannati, Vincenzo Argirò e Francesco D’Agostino, che una volta si sono presentati da un imprenditore piemontese con un provvedimento di arresto di alcuni “compari”, affermando che “quelli erano loro”, che avevano bisogno di denaro perché dovevano aiutare i carcerati e che di solito bruciavano escavatori. O come quando, invece, il boss Bruno Iaria, capo della locale di Cuorgné, originario di Melito Porto Salvo, si vantava con un giovane parente che in pizzeria lui e gli affiliati «non pagavano perché l’organizzazione controllava le attività del paese».
Molto si soffermano i giudice della Cassazione sui pentiti-chiave di Minotauro, Rocco Varacalli e Rocco Marando. Del primo si legge nella sentenza: «Il suo narrato è rimasto coerente e costante, privo di contraddizioni e munito di plurimi riscontri esterni, mai smentito da risultanze processuali di segno contrastante». Di Marando hanno scritto che «proviene da una famiglia pesantemente coinvolta in gravi fatti di sangue nell’ambito di scenari di criminalità organizzata». Le motivazioni della condanna dei 50 boss della ‘ndrangheta piemontese peseranno in vista della prossima decisione d’appello degli imputati giudicati in ordinario, la cui sentenza è attesa per il prossimo 28 maggio.