• Femminicidio, estrema conseguenza della subalternità delle donne. La riflessione di una studentessa delle medie di Cittanova
    Il femminicidio è la punta di un iceberg, la parte più evidente, il culmine di una serie infinita di violenze psichiche e fisiche che durano anni
    04/12/2013 | Nicoletta Anastasia Deni, III C Istituto Comprensivo Luigi Chitti di Cittanova | Edicola di Pinuccio

    OGNI DUE GIORNI e mezzo, in Italia, muore una donna. Non muore, però, per cause come malattie o incidenti, ma muore perché chi le stava accanto, chi avrebbe dovuto amarla, non ha accettato il fatto che avesse detto “basta”, che quella storia era finita. Ogni due giorni e mezzo in Italia avviene un “femminicidio”, una parola che è entrata prepotentemente nelle nostre case, nelle nostre discussioni, con la quale si indica la morte violenta di donne avvenuta per mano di mariti, fidanzati, compagni occasionali, perché essi si sentono possessori della donna, come se fosse solo un oggetto. Il femminicidio, però, è soltanto la punta di un iceberg, la parte più evidente, il culmine di una serie infinita di violenze psichiche e fisiche che durano anni. Per prevenire l’assassinio sono necessarie delle leggi che tutelino le donne a partire dalle percosse, dallo stalking, da ogni sorta di violenza, a cominciare da quella sessuale, consumata all’interno delle mura domestiche.

     

    E’ vero! Le prime a prendere posizione devono essere, e non sempre succede, proprio le donne, al primo segnale di violenza, urla, al primo schiaffo, alla prima spinta: senza “perdonare”, perché altrimenti “lui” si sentirà più forte, cioè il “maschio dominante”, che tutto può sulla propria donna, anche decidere della sua vita. Nel 2012 sono morte centoventiquattro donne; soltanto nel primo semestre del 2013, la stessa sorte è toccata ad altre sessantotto. Soltanto delle giuste pene e delle leggi mirate potrebbero in un certo qual modo arginare questa scia di violenza e di morte. La storia passata ci è maestra. Già nei tempi antichi le donne non avevano diritti. Nell’antica Grecia, se aristocratiche, erano costrette a vivere confinate entro le mura del gineceo; ad Atene esse non poterono mai prendere parte alla vita politica della città; per quasi tutte le gare sportive era vietata la presenza di atlete; non era loro concesso neppure recitare, in quanto i ruoli femminili erano affidati ad attori; soltanto le etere e le danzatrici erano ammesse ai simposi. Locri e Sparta costituivano le uniche due eccezioni: in queste due città le donne erano davvero libere. Presso i Romani, Dionigi di Alicarnasso (I sec a.c.) scrisse che Romolo permise la pena di morte per la donna adultera o che avesse bevuto del vino; infatti l’ubriachezza nella cultura romana, era equiparata all’adulterio e ciò spiegava e giustificava, agli occhi dei contemporanei di Romolo, che Egnazio Mecennio avesse ucciso a bastonate la propria moglie dopo averla sorpresa a bere vino, come ci riporta Valerio Massimo ( I sec.d. c.).

     

    Quando iniziò la lunga notte del Medioevo, a influire sulla condizione femminile ci fu anche la religione, il Cristianesimo; e non sulla base delle parole di Gesù che, al contrario era circondato da donne e furono tre di esse che, per prime, lo videro risorto, ma sulla base della predicazione di Paolo di Tarso che, nella prima lettera a Timoteo dice: “La donna impari in silenzio, in perfetta sottomissione, non permetto alla donna di insegnare, ma che stia in silenzio”. Ed è a causa di queste parole che Cirillo, dottore della Chiesa, santo, fu il mandante dell’assassinio di Ipazia, una donna che non stava zitta, che aveva avuto intuizioni astronomiche che soltanto nel ‘600 sarebbero state riprese da Galilei, Copernico e Keplero. Come a Ipazia, a milioni di altre persone fu negato il diritto di sapere, di conoscere, soltanto perché donne, e in quanto tali, inferiori all’uomo, com’è possibile leggere tra le righe della lettera di Paolo che, detto per inciso, era un uomo. “It’s a man, man world”, è un mondo per uomini, come recita una canzone di James Brown. Persino Dio viene raffigurato e pensato come tale. Ma c’è da dire che, proprio nel Medioevo si comincia a pensare a una parte femminile di Dio: Sophia, la Sapienza. Solo nel secolo dei Lumi si inizia a intravedere una piccola luce, un barlume di speranza per il “gentil sesso”, anche se, ancora per tutto l’800, molte donne furono costrette a travestirsi per poter studiare; dei quasi ottocento premi Nobel assegnati fino ad oggi, soltanto trentaquattro non sono andati a uomini.

     

    Ma alcuni tra i più importanti eventi della storia non sarebbero mai avvenuti senza la forza delle esponenti del sesso femminile: fu grazie a loro, per esempio, che prese avvio la Rivoluzione Francese. Dopo l’Unità d’Italia, furono molte le donne a ribellarsi: a Mongiana nessuna si vedeva in piazza per le feste, ma nel giorno in cui ci fu una rivolta per il pane, dalle bambine alle più più anziane uscirono tutte per strada al grido di : “Viva il re Borbone”. E, anche se forse i libri di storia non lo diranno mai, furono molte anche le brigantesse. Dopo l’Unità le italiane poterono andare alle urne solo nel 1946. Tra il 1755 e il 1769, durante l’indipendenza corsa, fu concesso il diritto di voto alle donne sopra i 25 anni e non sposate; ma il primo esempio di suffragio universale femminile fu nel 1893 in Nuova Zelanda, alle soglie del 900. Ed è stato nel 1949 che Simone de Beauvoir scrisse il suo libro più importante, “Il secondo sesso”, nel quale affermava che la donna era sempre stata trattata come tale e che ciò era errato, in quanto non esiste una natura maschile e una femminile ma, semplicemente vi è una natura umana, uguale per tutti. Ma dopo la fine della II Guerra mondiale, nel 1952, nessun parlamentare del Governo De Gasperi firmò il documento per il risarcimento morale e materiale per le donne che avevano subito atti di violenza nell’ambito delle “marocchinate” da parte dei militari coloniali francesi, come era stato proposto dalla deputata del Pci, Maria Maddalena Rossi. Anzi, il deputato socialista Luigi Preti quasi le giustificò in quanto avvenute nell’ambito della guerra.

     

    Ancora una volta gli uomini avevano deciso non solo sul destino ma anche sulla storia delle donne. Ancora oggi, nel terzo millennio, Malala, ragazza pachistana di 16 anni, deve rischiare ogni giorno la vita per andare a scuola e, come lei, tutte le bambine, ragazze e donne che vivono nei paesi africani e mediorientali. E in Italia, dove le barriere non dovrebbero più esistere, la posta in gioco non è più la cultura, il diritto di voto, il diritto alla libertà, ma è la vita, ciò che di più sacro esista. E’ perché questo? Per una millenaria convinzione che l’uomo sia superiore? E superiore in cosa? Questa diversità è dovuta solo all’aspetto fisico? Per quale motivo un uomo deve decidere della vita o della morte di una donna? Sempre, ogni giorno, c’è una donna che soffre: aspettarne la morte non è giusto! Finché le donne non si ribelleranno, tutte, e non prenderanno coscienza del fatto di non dover sottostare al dominio del maschio, la storia sarà trascorsa a vuoto, i secoli non avranno insegnato niente e tutto continuerà a ripetersi in un ciclo senza fine.