• Django, al cinema l’opera pop di Tarantino che celebra lo “spaghetti western” all’italiana
    23/01/2013 | Filippo Mammì | Edicola di Pinuccio

    UN FILM “AL SANGUE”. Quentin Tarantino porta in tavola un’altra opera pop che trabocca di logorrea ed emoglobina a fiumi. Django Unchained, uscito nelle sale italiane il 17 gennaio, non solo riprende la falsariga del precedente Bastardi senza gloria (la forza delle immagini che travisa la Storia), ma è anche un gustoso omaggio allo “spaghetti western” ed al suo pirotecnico universo, a cominciare dal titolo. Django è il western italiano del 1966, diretto dal regista Sergio Corbucci, con protagonista Franco Nero nel ruolo di un solitario killer dell’800 (Django, appunto) in cerca di vendetta in un Messico fangoso e violento; il film portò lo spaghetti western lontano dall’epica e dal mito del cowboy cari a Sergio Leone e lo avviò verso una visione più cupa e simbolica del mito della Frontiera, ma anche più realistica. Di realistico, ovviamente, il film di Tarantino ha molto poco, tra sparatorie interminabili, dialoghi estenuanti e ironia di grana grossa (esilarante la scena dei membri del Ku Klux Klan che si lamentano dei propri cappucci scomodi), ma come accennato prima, il suo intento è quello di dimostrare che il vero cinema può avere la capacità di influire sull’immaginario collettivo ed emozionare come un sogno senza neppure preoccuparsi della logica, creandone altresì una propria (come in Bastardi senza gloria che vede la morte di Hitler bruciato vivo in un cinema) e trasformando in stile giocoso le incongruenze del cinema di serie B.

     

    Tarantino torna un’altra volta dalle parti di Kill Bill 1 e 2 e alla sua innata glorificazione di un genere; come quello era un monumento al Kung Fu con tutti gli annessi e connessi, questo è una codificazione di tutto il western all’italiana con i suoi tempi morti, la violenza come unica strada in un mondo selvaggio, i suoi antieroi che diventano buoni solo casualmente. C’è tutto questo in Django Unchained, compresa la colonna sonora originale scritta da un Morricone che si reinterpreta donandoci anche la bellissima canzone Ancora qui, eseguita da Elisa in italiano anche nella versione inglese, mentre nel finale i nostalgici avranno un tuffo al cuore ascoltando le note del cult Lo chiamavano Trinità, composte da Franco Micalizzi per la premiata ditta Bud Spencer &Terence Hill. Come capita spesso in Tarantino, l’unico metro di paragone spetta solo al pubblico, il quale può giudicare unicamente con il divertimento e le proprie aspettative, in quanto è proprio lui a desiderare di vedere più immagini possibili per trovare sfogo alle proprie fantasie più sfrenate o alla semplice curiosità di sapere come andrà a finire; significativa, in questo senso, la scena della lotta tra due schiavi neri per la gioia (e il denaro) dei loro padroni, i quali (come lo spettatore) li incitano ad andare fino in fondo sapendo benissimo che uno dei due ci lascerà la pelle. Ed anche la violenza quasi cartoonesca tipica del regista rientra in questi parametri di “godibilità”.

     

    Per il resto, Tarantino gioca anche la carta del discorso sociale raccontando gli orrori dello schiavismo nell’America pre – guerra di secessione, ma sarebbe chiedere troppo ad un film che mescola la realtà con l’immaginazione creando una dimensione sospesa, ma, come direbbe qualcuno, “è il cinema, bellezza!”. Meglio concentrarsi quindi sugli attori o, più specificamente, sulla virtuosità degli attori. Che qui svolgono benissimo il loro lavoro: Jamie Foxx, nel ruolo del nero Django in cerca della moglie venduta ai negrieri, è ottimo, ma gli ruba la scena Cristoph Walts, giustamente candidato all’Oscar, nella parte del dentista tedesco Schultz, che riscatterà lo schiavo e lo guiderà nella sua ricerca, un personaggio cult di quelli che diventano icone con poche battute. Ma il ruolo più indovinato è quello dell’animalesco negriero Calvin J. Candie, affidato ad un Leonardo Di Caprio qui al suo primo ruolo veramente bastardo, la cui isterica crudeltà rimanda a quella dei nazisti di Bastardi senza gloria (grandioso il suo delirante, e lombrosiano, monologo sull’inferiorità della razza nera). Un discorso a parte lo merita il sempre bravo Samuel L. Jackson, nel ruolo dell’infido consigliere nero di Candie, Stephen, uno zio Tom al contrario e parolacciaro. Un personaggio che sembra essere stato creato apposta da Tarantino per rispondere a chi lo aveva accusato di razzismo per il troppo utilizzo della parola “negro” nei suoi film; infatti Stephen è sì libero, ma per diventarlo si è dovuto adeguare alla crudeltà dei suoi padroni fino a disprezzare lui stesso gli schiavi dimenticando di esserlo stato anch’egli, mentre il vero nero libero sarebbe Django che alla fine, recuperata la moglie Broomhilda, se ne va per la sua strada (e la sua vera cultura) senza accettare compromessi. Si consiglia di accorrere in massa al cinema!