• Vent’anni senza Fellini. Un autore inclassificabile che ha incarnato e raccontato i sogni e le speranze degli italiani
    04/11/2013 | Filippo Mammì | Edicoladipinuccio

    Odio Federico Fellini. Però mi piace. Il mio è sempre stato un sentimento contrastante verso uno tra i più grandi registi italiani (e mondiali); contrastante perché, nel mio immenso amore per il cinema, Fellini resterà forse l’unico cineasta che non riuscirò mai a comprendere fino in fondo, anche perché i suoi film, così belli e strani, mi hanno ogni volta causato un certo malessere psicologico. Suppongo che sia così anche per altri. Però la sua mancanza, nel panorama cinematografico e non solo, si sente, eccome. Lo scorso 31 ottobre sono stati ricordati i vent’anni dalla sua morte, avvenuta quel giorno nel 1993, ed improvvisamente molti si sono resi conto che è passato troppo tempo, compreso il sottoscritto che, all’epoca, aveva appena 12 anni. E che conosceva già Fellini, ma non grazie al cinema, bensì a Topolino: proprio il settimanale Disney italiano, nel settembre 1991, aveva pubblicato una storia omaggio a Federico, disegnata da Giorgio Cavazzano, uno dei migliori illustratori italiani di Mickey Mouse, intitolata Topolino presenta la Strada: un omaggio a Federico Fellini, ed uscita nel numero 1866 (che conservo tuttora gelosamente). In quel racconto, si immagina che il grande regista realizzi il suo lavoro premio Oscar utilizzando i personaggi dell’universo disneyano come protagonisti, con Topolino nel ruolo del Matto mentre Minnie e Gambadilegno interpretano Gelsomina e Zampanò.

     

    federico-felliniFu così che conobbi la figura massiccia e simpatica di Fellini, il suo cappellone, il cappotto lungo appoggiato perennemente sulle spalle e l’immancabile sciarpa rossa. Dovetti però aspettare la sua morte prima di vedere un suo film che, ironia del destino, fu proprio La Strada, trasmesso da Rete 4 il giorno dopo la sua morte. Il film mi fece capire che Fellini, pur amando i fumetti ed il fantastico come un eterno bambino, aveva i piedi saldamente legati a terra, capace di creare immagini di grande poesia o di raffinato umorismo per poi passare bruscamente a finali realisticamente drammatici o ammantati di una cupezza soffocante; sconvolgente fu per me vedere Zampanò che uccide il Matto, Gelsomina che muore di stenti e lo stesso Zampanò che piagnucola, solo come un cornuto, in riva al mare alla fine della pellicola. E tutto questo dopo che nella prima ora di film il tono era parecchio scanzonato, per non dire da commedia. Tutti i film felliniani degli anni Cinquanta sono così: malinconici e pervasi da un pessimismo molto in anticipo sui tempi, sostituiti successivamente da uno stile più personale, onirico e surreale, che pescava nell’immaginario italico della Commedia dell’arte, delle vignette satiriche e delle virtù e dei vizi del Belpaese.

     

    Ecco perché Fellini è così amato/odiato dal sottoscritto e da una bella fetta di italiani: il regista di Rimini ha saputo visualizzare l’inconscio collettivo dell’Italia, i sogni di tante generazioni di connazionali, tra il Ventennio fascista e gli anni Ottanta, abitati da ossessioni cattoliche, mentalità provinciali paralizzanti, illusioni di una vita migliore e mostruose fantasie sessuali, ma anche una sincera complicità con i personaggi e lo spettatore che si identifica in essi: chi non ha mai sognato di baciare Anita Eckberg nella fontana di Trevi o ritrovarsi come Titta chiusi in un negozio con una tabaccaia formosa e disponibile? Nessuno meglio di lui è mai riuscito a raccontare e criticare gli italiani toccando le corde del subconscio, come in un dormiveglia; da qui, credo, provenga quel malessere che ho menzionato sopra. Fellini, per tanti, è il “regista” per antonomasia, personaggio prima ancora che cineasta, che all’estero rappresenta tutto il cinema italiano (tanto da mettere in ombra altri registi non meno geniali di lui) ma gli americani sono sempre stati attirati più dagli aspetti fantastici (e più facili) dei suoi film che dalle storie in sé e dalla capacità di analisi. Inclassificabile, forse persino a se stesso, Fellini si è mosso nel mondo del cinema come chi deve combattere contro le proprie nevrosi e i ricordi, veri o falsi che siano, trasfigurandoli in discorsi di carattere universale; nevrotizzava gli attori pur amandoli (Anna Magnani non volle mai lavorare con lui perché “trattava gli attori come marionette”,

     

    fellini1Donald Sutherland ricorda ancora come un incubo i giorni delle riprese del Casanova, Sandra Milo e Anita Eckberg non hanno più trovato ruoli soddisfacenti dopo Fellini, solamente Mastroianni e l’amata moglie Giulietta Masina si adeguarono totalmente ai suoi desideri), sceglieva personalmente le comparse trasformandole in protagonisti inconsapevoli (come Alvaro Vitali, pienamente attore solo nei suoi film), ha preso Roma e l’ha trasformata in una città magica, una Babilonia dove tutto è possibile, ha saputo dimostrare che Alberto Sordi era anche un grande attore drammatico ed ha trasformato Cinecittà nell’Isola che non c’è, il suo mondo per non crescere più; ed oggi la stessa Cinecittà, o meglio quello che ne resta, è un santuario consacrato alla sua memoria. Fellini sentiva che, al di fuori del cinema, non trovava appigli forti e duraturi, aveva come paura che, se non fosse riuscito a visualizzare il suo mondo, non avrebbe potuto andare avanti; ma, incoerente come tutti i geni, aveva anche remore di rivederlo sullo schermo, in un continuo timore di se stesso o forse del rischio di ripetersi in ogni film.

     

    Non è un caso che molte delle sue pellicole terminino con il buio, non una semplice dissolvenza in nero, ma un lento abbassamento dei riflettori simile ad un progressivo ottenebramento delle forze vitali, una “morte” del film quasi a scongiurare qualsiasi possibilità di sequel o di immaginare un finale alternativo, un modo per chiudere definitivamente e passare ad altro. Ma operando così, era riuscito a cogliere in parte il senso della vita, quella vita che, nonostante tutto e qualsiasi cosa possa capitare, è un immenso circo che appartiene ad ognuno di noi, da amare o da sopportare, ma che prima o poi termina in un silenzio in cui è possibile vederci chiaro, come sostiene Roberto Benigni in La voce della luna, l’ultimo film testamento di Fellini. Eh sì, “i tuoi sogni sono stati anche i nostri. Ciao Federico” (cit. Tg1 del 2 novembre 1993).


     
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