• Cent’anni di Charlot. Analisi del ragazzino sognatore che c’è in ognuno di noi. Cosa Chaplin voleva esprimere veramente con il suo Vagabondo
    06/02/2014 | Filippo Mammì | Edicola di Pinuccio

    MI SONO RESO CONTO, trovandomi a parlare con colleghi o amici che, come me, si dilettano di cinema, di non essermi mai occupato di Charlie Chaplin. Anzi, mai una volta ho argomentato una discussione sul cinema citando qualche suo film; e neppure i miei interlocutori lo facevano. Ignoranza o snobismo? Macchè! Chaplin non viene quasi mai nominato nelle recensioni per il semplice fatto che è intoccabile: un genio scontato, che sta al di sopra di tutta l’arte cinematografica. Un simulacro dello spettacolo, insostituibile. E come tale deve essere festeggiato.
    Il 7 febbraio ricorrono i cento anni dal giorno in cui Chaplin, allora semisconosciuto attore inglese emigrato a Hollywood, comparve per la prima volta sul grande schermo nelle vesti della sua maschera immortale, Charlot (il nomignolo in francese, spagnolo e italiano, in inglese sarà semplicemente “The tramp”, il vagabondo, o più familiarmente “Charlie”). In quel giorno del 1914 nelle sale americane uscì il cortometraggio targato Keystone (la casa produttrice che inventò lo slapstick) Kid Auto Races at Venice, tradotto in italiano come Charlot si distingue. Cinque minuti appena, ma Charlot, più che distinguersi, irruppe prepotentemente in scena per uscirne solo durante la seconda guerra mondiale, con Il Grande Dittatore del 1940. Il corto non è niente di speciale, con il vagabondo che entra ed esce dall’inquadratura disturbando volutamente le riprese, ma la creatura di Chaplin è già abbozzata: la mitica bombetta, il bastone che nel corso degli anni comparirà e scomparirà a seconda dei film, i vestiti sformati e gli indimenticabili scarponi. Appena accennata, invece, la storica andatura a piedi storti, ma sarebbe stato chiedere troppo; era chiaramente una comica improvvisata sul set, senza sceneggiatura, e per il personaggio non vi era neppure un futuro certo.

     
    Chaplin all’inizio non si dedicò molto a Charlot, dipendeva ancora dai produttori e non poteva decidere autonomamente; ma il crescente successo di quell’ometto buffo fece lievitare il suo cachet finché, con un milione di dollari in tasca (una cifra enorme per un giovane attore del 1889) nel 1918 si mise definitivamente in proprio, dirigendo personalmente i propri film, cosa che già faceva in precedenza, ma con minore libertà. E la libertà gli permise di elaborare meglio il suo personaggio. Se si guardano le comiche dei periodi Keystone o Essanay (di recente restaurate e digitalizzate) Charlot è molto diverso da come sarà nei successivi capolavori: cafone, pigro, ubriaco e perfino molesto con le donne, è lontano anni luce dal tenero vagabondo che tutti conosciamo.
    Ma da Vita da cani (1918) in poi, Chaplin apporrà al cinema comico americano quel tocco di originalità europea che ne fece il genio oggi celebrato, ma allora coperto anche di critiche. Ispirandosi al comico francese Max Lindèr, Chaplin squadernò tutta l’abilità acquisita nei cabaret di Londra per creare una maschera che si distaccò dalla caricatura tipica dei film comici del muto diventando una rappresentazione divertente, ma anche amara, dell’uomo medio, del sognatore che deve fare a pugni con la realtà per emergere nel mondo; e spesso non ci riesce neppure. Premesso che tutte (o quasi) le comiche degli anni dieci e venti erano impostate su una satira feroce verso gli ambienti della nobiltà e dell’alta borghesia, tenendo conto che spesso erano pellicole destinate alle sale di ultima visione, quelle di Chaplin andavano oltre questa concezione del mondo, osando come nessuno aveva mai fatto.
    Se nelle comiche dei pur grandi Buster Keaton e Stanlio&Ollio c’era uno schema basato su “inizio – gag a ripetizione e anarchia – ricostituzione dell’ordine”, Chaplin abbatte invece la narrazione della commedia: le gag sono complementari al protagonista in ogni scena, non hanno nulla a che vedere con la comicità fracassona di Keaton e spesso non sono inserite a caso solo per far ridere lo spettatore, ma costituiscono degli espedienti per mandare avanti la trama o intuire una caratteristica psicologica del personaggio. Il protagonista stesso è completamente diverso dai mattatori del cinema di quegli anni: Keaton, Harold Lloyd o gli stessi Laurel&Hardy interpretano personaggi ben inseriti nel contesto sociale a cui appartengono, se ne combinano una è a causa della loro imbranataggine, ma poi torna sempre il lieto fine in cui l’apparente anarchia ridiventa normalità; insomma, semplici borghesi pasticcioni.

     
    Un universo negato invece al povero Charlot, eternamente emarginato dalla società ed escluso da un lavoro o da qualsiasi opportunità di riscatto: è evidente che in questo personaggio Chaplin abbia condensato tutte le angosce e le umiliazioni di un’infanzia traumatica vissuta nei sobborghi della Londra dickensiana di fine ottocento insieme all’amato fratello Sydney e alla madre Hannah. Charlot, all’inizio di ogni film, è sempre solo, non ha mai nessuno che si occupi di lui o che gli tenga compagnia, è spesso vittima degli eventi e della crudeltà umana, gli equivoci e le gag scattano sempre quando deve difendersi da qualcosa o qualcuno. E, a differenza dei personaggi sopracitati, non è neanche stupido, ma anzi esce fuori da ogni situazione col sorriso sulle labbra ed escogitando un piano per uscire di scena allontanandosi su una strada deserta. Pienamente consapevole di non avere un posto stabile in seno alla società, ma per nulla disperato o depresso; addirittura, è più a suo agio in mezzo alla strada che quando cerca di imparare le regole del vivere civile. Un personaggio contraddittorio, che conserva negli abiti un’aria dignitosa, ma sempre aspirante all’assoluto, poeta, sognatore e romantico. Chiaramente, il pubblico dell’epoca preferiva le scene comiche rispetto a quelle in cui la malinconia fa capolino (e che, dopo Il Circo e altre vicissitudini umane dell’autore, andrà via via accentuandosi); ma quello che appariva indigesto, nelle commedie, era la rappresentazione del mondo degli emarginati, dei barboni (e tale è Charlot) e dei disoccupati, con una sensibilità che affondava le mani nel mondo reale.

     

    Per giunta, ciò che rese Chaplin avverso alle istituzioni americane (con le conseguenze che tutti conoscono) era la sua visione del mondo comunitaria, in cui tutti hanno il diritto di essere felici e non presi a calci dal destino e dai prepotenti, ma il dettaglio peggiore era la vistosa sfiducia nel Potere in generale: i poliziotti freddi e minacciosi appostati dietro un muro, che non fanno rispettare la legge ma si accaniscono sui poveracci, gli ispettori sanitari o dei minori (come ne Il monello e Tempi moderni) visti come burocrati che sveltiscono le pratiche disinteressandosi totalmente del dolore e del disagio delle persone, i “padroni” che pensano solo al lavoro e brutalizzano i dipendenti non erano, come credevano i soliti farisei, una critica contro la società americana e neppure un’ammissione di fede comunista, ma solo il grido di qualcuno che voleva spiegare il suo personale concetto di umanità (come farà nel commovente finale del Grande Dittatore).

     
    Non è un caso che Charlot non abbia mai un amico vero accanto o una donna che lo ami, a meno che essi non appartengano allo stesso mondo da cui proviene lui: il randagio e la povera cantante di Vita da cani, l’orfano nel Monello, l’affamato avventuriero della Febbre dell’oro, la fioraia cieca del bellissimo Luci della città o la dolce ragazza di Tempi moderni, sono altrettanti compagni di viaggio condannati come lui a soffrire, ma allietati dalla speranza e da un affetto sincero come quello del vagabondo. E neppure nelle storie d’amore Charlot può dirsi felice; a parte le prime comiche in cui il lieto fine era d’obbligo, nelle opere più personali il pessimismo cosmico di Chaplin si accanisce sulle avventure sentimentali del suo ometto, lasciandolo spesso abbandonato o all’inizio di una relazione che non è neppure detto che duri. Infatti Chaplin non mostra mai il “dopo” dell’innamoramento, lo lascia in sospeso come se volesse prendere in giro lo spettatore o non lo ritenga necessario. Charlot fa scoccare la scintilla, ma non lo vediamo mai sotto un tetto con la consorte, dopo che lui e una ragazza scoprono di amarsi compare “THE END”. Neppure l’amore, insomma, può essere vissuto borghesemente dal nostro vagabondo, ma non per questo, sottolinea Chaplin, egli non ha il diritto di amare qualcuno e, sia che si tratti del suo primo piano sorridente che chiude Luci della città o la strada che si perde all’orizzonte di Tempi moderni, siamo rincuorati dal pensiero che affronterà finalmente la vita accanto a una donna.

     
    Coerentemente simile a questa poetica, lo stile cinematografico di Chaplin è semplice, quasi scarno; a differenza di molti registi “autori”, egli non ha mai adottato uno stile di regia che lo contraddistinguesse, tant’è che per molto tempo parecchi critici non lo hanno mai voluto considerare “originale”. Ma bastano le parole di Kubrick (“Il cinema di Chaplin è tutto contenuto e niente forma”) o di Pasolini (“Un film di Chaplin si può vedere venti volte come si può leggere venti volte una poesia”) per comprendere come la genialità di Charlot sia tutta nella messinscena e nell’amore che il regista/protagonista prova per i suoi personaggi; piani sequenza, campi lunghi e totali, montaggio quasi inesistente, ma anche una forte caratterizzazione psicologica e un grande e sapiente utilizzo della pantomima. Sono questi gli unici ingredienti attraverso i quali la sensibilità di Chaplin poteva venire fuori e inondare lo schermo.
    Buon centenario Charlot e altri cento anni di vita al magico sognatore che alberga in tutti noi.


     
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