• Come si de-costruisce un mito: Anthony Hopkins incarna il grande Hitchcock nel suo ultimo film
    17/04/2013 | Filippo Mammì | Edicola di Pinuccio

    CAPITA CHE IL CINEMA RACCONTI SE STESSO e lo fa in molti modi: tramite i remake di film famosi (la pratica più diffusa), le citazioni (pratica tarantiniana) oppure con i biopic, film – biografia di un cineasta famoso. E’ il caso di Hitchcok, di Sacha Gervasi, uscito due settimane fa in tutta Italia. Il film è forse l’ultimo di una serie di pellicole che Hollywood, da circa vent’anni, dedica, come una sorta di catarsi, a registi e attori in passato ritenuti scomodi o ingestibili: basti pensare a Charlot di Richard Attenborough, fluviale omaggio al sommo Chaplin; Ed Wood di Tim Burton che rende giustizia al peggiore regista di sempre; e, in tempi recentissimi, Tu chiamami Peter di Stephen Hopkins, dedicato al più geniale anarchico tra gli attori, Peter Sellers. Adesso, l’industria americana si occupa di uno dei pilastri della cinematografia mondiale, anch’egli bistrattato a lungo dalla critica statunitense, ma esaltato da quella europea. Tratto dal libro Come Hitchcok ha realizzato Psyco di Stephen Rebello, in Italia edito da “Il Castoro”, il film racconta la realizzazione del celebre thriller del grande regista e come influì pesantemente sulla sua vita privata e sulla sua carriera.

     

    Ma si concentra soprattutto sul rapporto profondo che esisteva tra Hitchcok e la devota moglie Alma, collaboratrice all’ombra del grande marito troppe volte messa da parte, ma indispensabile quando un film necessitava di qualche modifica e prima consigliera sulle qualità delle opere hitchcockiane. Ed in parte è un peccato: lo spettatore più cinefilo avrebbe preferito sapere molto di più sulla realizzazione di Psyco e molte scene sono dedicate alla gestazione e riprese del film, ma riguarda situazioni già note agli addetti ai lavori e abbandona la curiosità per alcuni aspetti famosi (prima fra tutti, la realizzazione della proverbiale scena della doccia). Per il resto Gervasi, ottimo regista di documentari, punta ad informare lo spettatore sulla vita privata del grande Hitch, interpretato fin troppo bene da Anthony Hopkins, per la prima volta mostrato come un uomo qualunque (fino ad un certo punto) in preda alle proprie nevrosi ed alla propria genialità di cineasta. Un procedimento decostruttivo che parte mostrando l’Hitchcock più conosciuto dal vasto pubblico, quell’attempato gentiluomo dall’accento britannico che, sorseggiando il thè, descrive impassibile le situazioni più atroci e violente, citando in apertura la celeberrima sigla della serie Alfred Hitchcock presenta (la Marcia funebre per una marionetta di Gounod) e presentandoci il grande regista che racconta la propria vita al pubblico in sala.

     

    Prosegue mostrando un Hitchcok  privato che nessuno aveva mai visto, personaggio già solamente per l’incredibile stazza e i modi, ma via via sempre più vicino alle altre persone (gli uomini comuni protagonisti dei suoi film), con le sue ansie e le sue angosce, tormentato dal dubbio che la moglie lo tradisca e capace, anche lui!, di perdere qualche volta il controllo. Dopotutto, nei suoi film, Hitchcok è stato un anticipatore della ansie e paure dell’uomo contemporaneo, soprattutto quello degli anni 2000, capace di descrivere l’angoscia del quotidiano, la curiosità morbosa che si cela in ognuno di noi ed il panico improvviso nelle situazioni più banali. E non poteva, suggerisce il film, non essere angosciato lui stesso anche se immettere nella storia la figura del serial killer Ed Gein, ispiratore del personaggio di Norman Bates di Psyco, che addirittura compare come lato oscuro del grande regista che gli parla e quasi lo spinge ad essere come lui, è francamente eccessivo se non irritante. Uno spettatore che conosce un po’ più di cinema sa benissimo che in tutte le opere di Hitchcock c’è sempre una depravazione nascosta, una morbosità latente che anima i personaggi, un desiderio inconscio di dolore e sangue, quasi una propensione masochista. Invece, il film sembra dire che, con Psyco, Hithcock si fosse inoltrato su un terreno per lui vergine, in cui trovò libero sfogo per i suoi desideri più nascosti (in una scena, egli ammette: “ho delle pulsioni…forti!”); niente di più sbagliato, anche se Hitchcock indubbiamente amava sondare percorsi tortuosi che nessuno, allora, aveva ancora esplorato.

     

    Aveva, ed è detto nel film, attrazione per le personalità malate, è stato uno dei primi registi a non rappresentare il Male in maniera stereotipata, ma cercando persino di dargli una ragionevole spiegazione. Ma fu sempre un uomo innamorato della verità e della logica, quindi il Male nelle sue opere viene tenuto a distanza e solo l’uomo più razionale alla fine ne esce vincitore. E, soprattutto, amava le morbosità nascoste in ognuno di noi, giocando con le attese dello spettatore e mostrando, beffardo, le immagini che bisogna vedere ma da cui il pubblico si aspetta di più (come nella scena della doccia di Psyco, in cui non si vede mai il coltello penetrare nella carne di Marion Crane, eppure chiunque abbia visto il film è convinto che sia visibile). La parentesi narrativa dedicata al rapporto tra Hitch e la moglie non è male, anche se si conclude nel modo più roseo possibile, come accaduto in realtà, ma si inchina ai canoni odierni del cinema americano nel descrivere la vita di coppia, in cui tutto alla fine finisce a tarallucci e vino. Anzi, nel prendere in giro le ossessioni del maestro verso la moglie, sembra che Hollywood voglia prendersi una rivincita contro un regista tra i più apprezzati dagli Studios, ma anche odiato per la sua troppa voglia di indipendenza lavorativa. Ed è su questo che si concentra l’altra metà del film, indubbiamente più interessante.

     

    Il lavoro di Psyco spaventava i produttori che credevano che fosse una trama buona solo per un filmetto di serie B (bontà loro), ma spaventava di più la rappresentazione di uno schizofrenico come mai, fino ad allora, era stato fatto al cinema (tant’è che neppure Anthony Perkins aveva la minima idea di come interpretarlo), oltre ad una rappresentazione della violenza troppo esplicita per i tempi (non si era mai vista una protagonista che muore dopo trenta minuti di proiezione). Il film costò pochissimo, ma Hitchcock ottenne la più ampia libertà espressiva, soprattutto perché voleva girare un film in pochissimo tempo, contenibile nei costi e di sicura presa sul pubblico (questo fu il motivo, non una pericolosa attrazione verso il serial killer). Perlomeno, Hitchcock è la dimostrazione della genialità di un regista che trasformò una trama banale in un capolavoro della storia del cinema, che cambiò i canoni del thriller ed influenzò quelli futuri dell’horror. Gli altri aneddoti sono quelli già noti, dall’ossessione per le attrici (con la conferma di un sentimento amoroso verso Grace Kelly) alla maniacalità sul set fino al famoso cinismo e le battute salaci di Hitch. In definitiva un film ben fatto che però concede troppo (e superficialmente) alle tematiche personali e lascia con l’amaro in bocca chi voleva sapere di più sulla realizzazione delle avventure omicide di Norman Bates.

     

    Il resto è salvato ampiamente dagli attori, con Hopkins che, dopo Hannibal Lecter, interpreta colui tramite il quale i serial killer sono approdati al cinema, Helen Mirren nella parte della moglie Alma ruba la scena con la sua personalità ora placida ora energica ed una menzione speciale va a Scarlet Johansson, che interpreta l’attrice Janet Leigh protagonista dei primi trenta minuti di Psyco, che riesce a rendere quella mistura di sensualità, fragilità e paura che molto spesso Hitchcock trovava affascinante in una donna.