• Pino l’Astuto. Un paio di riflessioni in forma di racconto

    Teleamerica

    Negli anni ’90 i primi migranti raggiunsero la Calabria minore, quella dei paesini come il mio, traversando l’adriatico, prima, e lo zoccolo duro dell’Italia poi. Vennero dai primi Balcani, dalla Polonia, da qualche altro posto che conoscevo solo attraverso lezioni minime di geografie. All’inizio, conobbi i Polacchi, che vendevano utensili e chincaglie, spettacolari binocoli militari e coltellini seghettati che fecero la gioia dei tanti Rambo adolescenti della mia città (e l’angoscia di chi si ritrovava puntualmente con le gomme a terra e una sola ruota di scorta, quasi ogni mattina). Poi incontrai gli Albanesi, della cui attività commerciale non ricordo la natura. Ma forse lavoravano nei campi.
    Quale che fosse l’etnia o la provenienza, questi “forestieri” parlavano un italiano quasi perfetto, e conoscevano gran parte della cultura popolare italiana padroneggiandone usi e abusi: citavano Sanremo, la Carrà, la Corrida di Corrado e le formazioni esatte delle maggiori squadre nazionali con lodevole puntualità. Ridevano quando c’era da ridere e si tiravano fuori da ogni conversazione che percepivano sconveniente. Erano andati a scuola da Silvio Berlusconi, insomma: le onde radiotelevisive commerciali del tempo raggiungevano questi paesi come i corsi della Scuola Radio Elettra ma gratuitamente, esportando istruzioni all’uso di un Paese, l’Italia, che pareva l’America.
    Questi “studenti erasmus dell’emigrazione” prendevano il primo barcone e raggiungevano Topolinia, Gardaland, Wonderland o Neverland, impregnati di tanta cultura televisiva e tanto “sogno italiano”. Per scoprire che gli Italiani, nello stesso periodo, partivano verso l’Albania spinti da una legge sull’imprenditoria all’estero molto conveniente. E per scoprire che Topolinia o Gardaland non erano altro che rappresentazioni edulcorate (versioni fittizie) di una Italia che di favoloso aveva solo il debito pubblico. Questi uomini e donne hanno portato talenti e ambizioni tra di noi, e mentre alcuni si lasciavano assorbire dal torpore italico altri rifacevano i bagagli e partivano alla volta di Americhe migliori, lasciando il posto a migranti di taglia e colore diverso, provenienti da posti sempre più lontani.
    La delusione negli occhi di quei primi Albanesi oggi la ritrovo allo specchio, tutte le mattine, passandomi in fretta una mano tra i capelli per dar loro una qualche parvenza d’ordine. E io la Tv nemmeno la guardo. Ma quando osservo le finestre luminescenti di raggio catodico dal mio balcone sui palazzi di fronte non posso fare a meno di ricordare la moglie del pompiere in Fahrenheit 451, intrappolata nella finzione fino al più infimo nervo. E invidio quei migranti che dell’Italia hanno fatto solo una prima tappa. Che almeno hanno sovrapposto l’Italia Reale a quella Televisiva e trovandola mancante si sono chiamati fuori. Almeno loro non hanno mai creduto che i materassi Eminflex fossero comodi solo perché lo diceva zio Mike. O che per vincere al Lotto basta giocarci. Non hanno mai urlato Forza Italia pensando di guadagnarsi ospitalità e simpatia, non l’hanno mai ritenuto un dovere nei confronti della Patria putativa. Avessimo avuto metà del loro spirito critico, raccoglieremmo ora frutti meno amari.
    Il Paese Reale per noi oggi coincide sempre di più con quello Televisivo, leggiamo i giornali solo se l’agenda catodica non ne viene troppo sballata, riteniamo noioso e disfattista ogni tentativo di destarci da questo torpore: dove c’è Barilla c’è casa, non è sufficiente? Se poi i biscotti che nelle reclame si tuffano sinuosi nel latte guidati da mani invisibili fanno venire il cancro chi se ne frega. Se le banche che hanno costruito tutt’intorno a te prima o poi ti soffocheranno – di nuovo – chi se ne importa. C’è il Grande Fratello che mi distrae e mi coccola. C’è Maria de Filippi che ammicca dal mio scatolone magico ogni volta che mi sorge un dubbio, per subito fugarlo con argomentazioni di sogno. Fa nulla che i miei sogni siano in formato PAL.
    I migranti di 20 anni fa guardavano le nostre trasmissioni e sognavano di venire a vivere in Italia. Noi oggi guardiamo le nostre trasmissioni, ma sogniamo di andare a vivere in Tv.
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    Regime
    Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
    Per regime si intende un sistema di controllo sociale, ovvero, più specificamente, una forma di governo, specialmente quando è strettamente correlata ed identificata con una personalità politica che vi assume un ruolo dominante (ad esempio, “il regime di Saddam Hussein” o “il regime di Franco“), oppure ad una determinata ideologia politica (ad esempio il regime fascista o il regime comunista) oppure ad una dittatura militare.
    Almeno in teoria, l’attribuzione di questo termine ad un certo particolare governo esistente non implica un giudizio di qualche tipo su di esso, ed infatti la maggior parte dei commentatori politici lo usa in modo neutro. In pratica tuttavia, soprattutto a livello colloquiale ed informale, viene riferito spesso a governi con una fama di essere repressivi, non democratici o illegittimi, tanto che, in questi contesti, la parola implica un significato di disapprovazione morale o di opposizione politica. A riprova di ciò basta osservare come sia raro sentir parlare di un ”regime democratico”.

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    baratto

    Ho sognato il voto di scambio. Nel sogno le facce dei candidati sono monocrome, immerse nei toni seppia di una foto anticata al computer. Le giacche sformate, le toppe sui gomiti, la riga di lato e il garofano nell’occhiello. Ho l’alito profumato e indosso l’abito della domenica. Soprattutto, nel sogno il mio voto conta qualcosa. All’entrata principale della scuola elementare mi accolgono i politici in pompa magna, mi stringono la mano, si informano sulla salute, sui figli, sul lavoro e poi di nuovo sulla salute. Non più sulle intenzioni di voto. E non hanno bisogno di rammentarmi che “se tutto va bene” mio figlio grande avrà quel posto di lavoro: lo so già. La stretta di mano è quella che ci si scambia tra uomini, un patto d’onore, sulla parola. Non ci sono macchine fotografiche, nell’epoca del sogno, se non quelle grosse a emulsione, impossibili da nascondere sotto al bavero. Posso però “disegnare” il nome del candidato di modo da renderlo distinguibile durante lo spoglio. Piego la scheda, salutando la commissione, esco gonfiando il petto. Sulla soglia, infine, annuisco con discrezione e ricevo in cambio uno sguardo di soddisfazione. Stasera, penso nel sogno, aggiungerò alle mie preghiere quella di vincere le elezioni. Perché, nel sogno, le elezioni le vinco pure io.   Al risveglio il mondo è di nuovo a colori. Le fotocamere sono digitali, i capelli pettinati con il gel e il voto di scambio è un reato. Provo a ricordare se già negli anni da cui sono appena rinvenuto fosse illegale, ma io a quell’epoca nemmeno c’ero. In quest’epoca, tuttavia, il voto continua ad essere organizzato intorno al tavolo: il capofamiglia o chi ne fa le veci divide i voti per amicizia, rilevanza, obbligazione, lottizzando la famiglia attraverso modi e rituali del tempo che fu, ormai inutili e forse solo ancora un po’ catartici. Ché la coscienza continua a pizzicare, come per un retaggio evolutivo: ci sente bene solo dopo aver compiuto i propri doveri. E allora si vota Il Cognato del Ragioniere, La Sorella della Dottoressa, Il Genero dell’Avvocato: personaggi in cerca d’autore la cui funzione conativa si esaurisce nel momento stesso in cui viene loro assegnata. Comparse, viti minute di un ingranaggio elettorale che non può nemmeno vantare tecnologia e precisione svizzere.   Mi presento nella sede di seggio elettorale con l’abito buono, il sorriso smagliante di chi si crede in possesso di una perla rara e il disagio congestionato di chi però, in fondo, lo sa di non contare niente. Vengo braccato da candidati e sostenitori, salutato violentemente, interrogato sulle intenzioni di voto, sulla famiglia e poi di nuovo sulle intenzioni di voto, vengo raccomandato, sollecitato, adulato, passato ai raggi X della presunzione, infine accompagnato alla sezione. Il presidente mi accoglie chiamandomi per nome, il segretario mi sorride, gli scrutatori con la mano mi fanno ciao. Nella solitudine polverosa della cabina elettorale faccio un segno con la matita, le linee perfettamente diritte, ripiego la scheda su se stessa e infilandola nell’urna di cartone realizzo l’insostenibile leggerezza del mio peso elettorale.   La mia mente continuerà a macinare per un paio di giorni i vari copioni da recitare a questo o quel candidato, sforzandosi di non fare confusione, pregando di non incontrare più di un creditore per volta. O forse deciderò che il mio voto è sacro e segreto nonostante tutto. Almeno per un paio di giorni. Quando a conti fatti tutti sapranno chi ha votato Chi, con il minimo scarto e il massimo risentimento. Ché se in una sezione si sono registrati 50 voti o 100, rintracciare i franchi tiratori è un gioco da ragazzi.   Non c’è niente di meno segreto del voto, non c’è niente di meno libero. Non c’è niente di meno sacro.