• Italianesi di Saverio La Ruina dal 31 gennaio in scena a Milano. La piece teatrale dell’autore e regista calabrese ispirata alla sorte degli italiani dimenticati in Albania all’avvento della dittatura
    29/01/2012 | Scena Verticale | Comunicato

    ESISTE UNA TRAGEDIA inaudita, rimossa dai libri di storia, consumata fino a qualche giorno fa a pochi chilometri dalle nostre case. Alla fine della seconda guerra mondiale, migliaia di soldati e civili italiani rimangono intrappolati in Albania con l’avvento del regime dittatoriale, costretti a vivere in un clima di terrore e oggetto di periodiche e violente persecuzioni. Con l’accusa di attività sovversiva ai danni del regime la maggior parte viene condannata e poi rimpatriata in Italia. Donne e bambini vengono trattenuti e internati in campi di prigionia per la sola colpa di essere mogli e figli di italiani. Vivono in alloggi circondati da filo spinato, controllati dalla polizia segreta del regime, sottoposti a interrogatori, appelli quotidiani, lavori forzati e torture. In quei campi di prigionia rimangono quarant’anni, dimenticati. Come il “nostro” che vi nasce nel 1951 e vive quarant’anni nel mito del padre e dell’Italia che raggiunge nel 1991 a seguito della caduta del regime. Riconosciuti come profughi dallo Stato italiano, arrivano nel Belpaese in 365, convinti di essere accolti come eroi, ma paradossalmente condannati ad essere italiani in Albania e albanesi in Italia. Ispirato a storie vere. La prima stesura del testo è giunta nella cinquina dei finalisti al Premio Riccione per il Teatro 2011.

     

     

     

     

    MILANO TEATRO DELL’ARTE 31 GENNAIO > 5 FEBBRAIO
    da martedì a giovedì ore 21 – venerdì ore 21,30 – sabato ore 19,30 – domenica ore 16
    Teatro dell’Arte Via Emilio Alemagna, 6 Tram 1, 19, 27 Autobus 57, 61, 94 MM1 – MM2 Cadorna Informazioni e prenotazioni CRT ufficio Promozione tel. 02/881298 promozione@teatrocrt.it

     

     

     

    Ho cominciato a ricordare che quando l’aeroplano era sparito dall’orizzonte, chiudevo gli occhi e l’aeroplano tornava un’altra volta indietro nella mente, stringevo gli occhi più forte e mo potevo vedere pure dentro all’aeroplano, che poi non sapendo com’era fatto me lo pensavo tale e quale a un postale, ma proprio tale e quale, con l’autista allo sterzo che fumava e la gente attorno a fare domande:

     

    - “Ma quando arriviamo?”.
    – “Oggi è un poco fuori orario, però, eh”.
    – “Non le potresti prendere più piano quelle curve per favore che mi toccano lo stomaco?”.
    Me lo pensavo proprio come quei postali con quelle signore anziane che danno sempre fastidio all’autista:

     

    - “Io dovrei scendere un poco poco prima della fermata, me lo faresti il piacere di farmi scendere proprio davanti alla Esso?”.

     

    Pensavo che dietro a sta signora anziana ci stavano seduti mamma e papà, che papà era finalmente tornato dall’Italia, era tornato in Albania ed era venuto a pigliarci. E approfittando di un momento che la signora anziana stava zitta, che finalmente quelle curve lo stomaco gliel’avevano toccato, ho fatto a papà:

     

    - “Papà, dove andiamo?”.
    – “Eh”, fa lui, “andiamo nel posto più bello del mondo”.
    – “E qual è sto posto più bello del mondo?”, facevo io.
    – “L’Italia”.
    – “E com’è st’Italia?”.
    – “Eh, è un posto bellissimo l’Italia”, faceva lui.

     

    Gli facevo tutte quelle domande ingenue che può fare un bambino che non aveva mai visto niente del mondo.

     

    - “E perché è un posto bellissimo?”.
    – “Ma perché in Italia ci sono le città più belle del mondo: Firenze, Roma, Venezia. Non c’è cosa più bella che essere italiani”.
    – “E perché non c’è cosa più bella che essere italiani?”, facevo io.
    – “Ma perché in Italia siamo tutti pittori, musicisti, cantanti”.

     

    Al punto che quando poi siamo tornati veramente in Italia, scendendo a Roma dal treno io m’aspettavo un’orchestra, con la gente che suonava ballava e cantava. E invece non suonava e ballava nessuno, e tantomeno cantava nessuno, anzi c’hanno tenuti bloccati cinque giorni in questura e zitti, e se reclamavamo ci guardavano pure storto e zitti lo stesso. 

     

    - “Ma guarda st’albanesi…”, dicevano i poliziotti.
    – “Non c’è cosa più bella che essere italiani”, diceva papà.

     

    (dal testo)

     

     

     

    saverio la ruina

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Rassegna stampa

     

    la Repubblica | Anna Bandettini | 04.12.2011
    Tonino, l’italiano “albanese” in un bel lavoro di Saverio La Ruina

     

    A conclusione (o forse no), di una sua vicenda professionale originale, scandita da due monologhi di grande successo come La Borto e Dissonorata, Saverio La Ruina approda a un nuovo spettacolo, un altro itinerario soggettivo ugualmente bello e commovente. Se negli altri due, in ruoli di donna, svelava un universo femminile marginale ma di riscatto, in Italianesi, fino a ieri all’India di Roma, sempre prodotto da Scena Verticale, è Tonino, un 40enne cresciuto nei campi di concentramento albanesi, come molte migliaia di altri italiani, soldati e civili, che alla fine della seconda guerra mondiale rimasero “intrappolati” in Albania. Sottoposti a torture e lavori forzati, vissero nel sogno dell’Italia dove, una volta arrivati, vennero sempre considerati stranieri. Una storia umana bella, che in pantaloni di flanella grigia, gilerino blu, La Ruina dice con tempi lenti, gesti precisi: una grande recitazione che eleva il racconto a una dimensione fortemente simbolica. Che è quello che lo rende
    speciale. (da non mancare)

     

     

    il Manifesto | Gianfranco Capitta | 04.12.2011
    Italianesi – L’Italia sognata di qua del mare

     

    Esiste una modernità sperimentale anche nell’andare a osservare nelle pieghe della provincia comportamenti, tipologie e fatti che hanno un senso fortissimo, e sono legati in maniera fulminante alla grande Storia del paese, della sua cultura, e anche dell’Europa, in questa ricerca si è mosso da maestro da alcuni anni Saverio La Ruina, dedicato ormai a una via solitaria di autore e interprete, pur mantenendo radici forti nella sua Calabria, dove ha fatto, con Dario De Luca e la loro Scena Verticale, un osservatorio imprescindibile della rassegna Primavera dei teatri. Alla sua terza provo di monologo (dopo il successo di Dissonorata e più recentemente di La Borto, esplorazioni al femminile nei pregiudizi di tutti i sud d’Italia) La Ruina ci spiazza quasi, ripercorrendo la vicenda
    di alcuni Italianesi(oggi ancora all’India poi in tournée), ovvero coloro che prigionieri di guerra dall’epoca fascista, o loro discendenti, sono considerati «albanesi» in Italia e «italiani» dall’altra parte dell’Adriatico. Un destino atroce e destinato all’infelicità. L’attore usa una lingua bellissima, un calabrese musicale che ogni tanto scopre degli spigoli, e fa iniziare il racconto della bolsa e sanguinosa manìa di grandezza del duce che voleva farsi un impero per lui e per l’imbelle Savoia. E l’ingenuità affettuosa delle creature narrate, non fa che render ancor più deliranti quei sogni. Che poi si tramutano in «campi», di prigionia e concentramento per migliaia di italiani, finché l’intera Albania sarà un enorme territorio chiuso e blindato con tutti gli albanesi dentro, per i deliri di Hoxa. Tra genealogie ardimentose da seguire, particolari che suonano come pugni nello stomaco, e quella loro incrollabile ingenuità, i personaggi raccontati da La Ruina sembrano resistere ad ogni smottamento. La vera voragine si apre nel loro cuore nel momento in cui cercheranno di riannodare i fili e le ascendenze della propria vita, fino allo sperduto paesino sardo dove abita il padre che fu soldato di spedizione in Albania. Ma poiché la vita non è una trasmissione di Maria De Filippi (per fortuna) quel figlio d’amore e di guerra sarà rifiutato, come un estraneo, e se ne tornerà a fare il sarto in Calabria dove altre parentele l’avranno portato. Una storia molto bella e robusta, scritta molto bene. E Saverio La Ruina è un raccontatore fantastico, discreto ma ineludibile con i suoi affondi. Resta ancor di più il dubbio su quale teatro sarebbe capace di darci, fuori dei suoi
    meravigliosi racconti.

     

     

    Myword.it | Renato Palazzi | 25.11.2011 (Presentazione)

     

    L’avvenimento più atteso della settimana è senza dubbio il debutto in “prima” nazionale, lunedì 28 al Teatro India di Roma, del nuovo spettacolo di Saverio La Ruina, l’attore-regista calabrese che in questi anni si è imposto anche come autore dalla forte e personalissima vena espressiva, attento soprattutto a denunciare le violenze e le discriminazioni subite dalle donne del Sud. I suoi due monologhi precedenti, Dissonorata e La Borto, in questo senso sono ormai da considerare dei piccoli classici. Il testo in scena all’India, Italianesi, si discosta però dagli altri perché non tratta di delitti d’onore o gravidanze forzate, e non è incentrato su un personaggio femminile: l’argomento che affronta è quello degli italiani – in prevalenza ex-soldati – rimasti intrappolati in Albania con
    l’avvento del regime, e il dramma dei loro figli, considerati dei potenziali sovversivi e internati in campi di prigionia. La Ruina dà voce a uno di costoro, approdato nel ’91 in Italia, nella patria del padre in cui lui, tuttavia, non aveva radici.

     

     

    Internazionale.it | Goffredo Fofi | 29.05.2011

     

    Nella patria dei dialetti e di Gadda la lingua comune dei romanzieri è solitamente piatta e giornalistica, e la sua sperimentazione è lasciata semmai a un teatro non centrale e raro (ai primi posti il calabrese Saverio La Ruina e la siciliana Emma Dante). È un segno anche questo dell’omologazione e della mercificazione, che riguarda però anche la letteratura mondiale: sono pochi gli scrittori che sembrano resistere agli obblighi di una produzione mercificata, e che cercano, inventano. costruiscono. Che non preferiscono la facile traducibilità. […]

     

     

    Teatro e Critica | Simone Nebbia | 04.12.2011
    Italianesi di Saverio La Ruina: storie vere degli “immigranti”

     

    “Ma mamma io, per dirti il vero, l’italiano non so cosa sia, e pure se attraverso il mondo non conosco la geografia”. Di queste parole Francesco De Gregori vestiva L’abbigliamento di un fuochista, di queste parole suona uno strano sentimento di patria a tradimento, ignota e mai conquistata, patria di sangue diluita nei viaggi e nelle occasioni, ascoltando Saverio La Ruina di Scena Verticale che porta in scena il suo nuovo monologo, da sé scritto e apprezzatissimo all’ultimo Premio Riccione 2011, dal titolo Italianesi. Una tragedia dimenticata, in fondo a tutto questo, quella di soldati e civili italiani rimasti prigionieri in campi di concentramento in Albania, vittime della dittatura instaurata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale; quando furono rimpatriati, molti anni dopo, le donne e i bambini figli di italiani furono internati nei campi e lì dimenticati per quaranta lunghi anni. Il protagonista di questa storia è lì che nasce e vive, sottratto alla sua patria e col sogno della sua altra patria lontana, dov’è tornato suo padre che desidera conoscere. Non c’è bisogno di scriverlo sulla scheda (ma c’è), quanto sia ispirato a storie vere. Quel che colpisce però è l’uso del plurale, là dove solito è l’uso al singolare: storie vere, la pluralità compone un disegno molto più preciso perché fa pensare ai nomi collettivi come popolo, gente, tutti quegli appellativi cheridotti nel singolare non ce la fanno comunque, a non contenere una moltitudine. Questa è la forza che La Ruina è in grado di innescare: nelle sue parole vive una voce che ne amplifica mille altre, sopite dal tempo e dalla dimenticanza. Un lieve difetto fisico, quasi impercettibile zoppia alla gamba destra, e l’amore per lo sport (ancora, collettivo); poi i capelli sistemati alla meglio ma liberi da una pettinatura astringente, il maglioncino a V rosso sulla camicia bianca, la cravatta stretta stretta, i suoi gesti e le espressioni del volto dicono ancora una volta, dopo Dissonorata, dopo La Borto, che Saverio La Ruinaè uno degli attori più bravi che l’Italia possa vantare (e mai se ne vanta…), una sorta di macchina attoriale che dona alla materia ogni cosa di lui, che nobilita, rende viva la poesia della scena: vederlo in certi momenti stimola quella meraviglia, come seguendo la famosa farfalla fuggita di Marcel Marceau. Gli elementi sulla scena sono davvero pochi, ma l’uso è sapiente: l’accentramento dello sguardo su quella sedia che si volge ora da un lato ora dall’altro, il rettangolo di luce che disegna una geometria precisa nel nero attorno (le luci sono di Dario De Luca), dietro un fondale di nebbia appena percepibile la musica trapunta dal vivo di Roberto Cherillo, le ombre sulle pareti laterali dell’uomo e della sedia che si allontanano e si avvicinano, entrambe ingigantite, quel tono sommesso che è suo segno distintivo e sempre di estremo calore intimo. Le intenzioni di La Ruina si legano a un racconto di dislocazione, di sradicamento continuo e impenitente; il protagonista è straniero ovunque, vittima di un eterno ritorno a un’origine che non lo riconosce (“l’italiano” in Albania, “l’albanese” in Italia), una sorta di emigrante di vocazione, figlio indesiderato anche fosse in adozione, un “immigrante”, viene voglia di definirlo, mai davvero nel luogo dove si trova. La Ruina ha una qualità innata di costruire drammaturgie dove immagina mondi concreti e visibili, ma non per questo poveri di quella poesia popolare, che in questo caso è un’affermazione di italianità dal più in basso possibile. Nella resa finale qualcosa va forse ancora limato, l’ultima parte è un po’ dispersiva e rischia uno sfilacciamento proprio nel momento in cui si richiederebbe massima tensione alla limpidezza, alla concretezza, ma quando la sedia retrocede verso il fondo e retrocede anche lo spazio di luce, ci si accorge come riesca – nonostante sofferta, minata, deflorata – a tornare alla fine la libertà: una luce presa a fatica, l’Italia patria per molti ancora urgentissima terra di conquista, la conquista di sé e della propria presenza – tutta umana – nel mondo che troveranno.

     

     

    Il Tamburo di Kattrin | Camilla Toso | 15.12.2011
    La Ruina torna in scena con Italianesi

     

    A due anni dall’ultimo spettacolo, quando ci si aspettava ormai un ritorno alla coralità della compagnia Scena Verticale, ecco debuttare Italianesi. In scena Saverio La Ruina, dopo l’acclamatissimo Dissonorata e il toccante La Borto, un nuovo testo, una nuova sedia, un nuovo personaggio: questa volta un uomo. Negli ultimi sei anni lo abbiamo visto vestire panni di donna, per racconti strazianti – delitti d’onore, stupri, violenze e gravidanze interrotte – che hanno lasciato le platee italiane e straniere con il cuore sospeso e le lacrime agli occhi.Le storie alla base dei testi di La Ruina sono sempre vere, di persone incontrate realmente, sentite raccontare direttamente dalla bocca di chi le ha vissute. Così è stato anche per Italianesi, una vicenda incrociata per caso guardando la televisione su cui il drammaturgo ha voluto indagare, conoscere, scoprire ogni particolare, fino ad arrivare a portarne in scena una versione personale e in qualche modo universale. Già perché il nostro personaggio non ha un nome. È uno dei tanti figli di italiani – migliaia – rimasti bloccati in Albania con l’avvento della dittatura: costretti a vivere in campi di concentramento senza poter rientrare nel proprio paese per più di quarant’anni e condannati in seguito a essere stranieri in patria. Un sarto, nato in Albania, negli occhi il sogno dell’Italia come unica vera casa insieme alla figura del padre, eroe lontano che ha trovato fortuna e famiglia dall’altra parte del mare. In scena il protagonista racconta e rivive: memoria e ricordo queste sono, forse, le chiavi (anche tecniche) della narrazione di La Ruina, che sembra appoggiarsi proprio sulla memoria fisica dei caratteri che indaga.Impossibile per uno spettatore che conosca già i suoi lavori non fare paragoni e non mettere in rapporto diretto i precedenti personaggi femminili con quest’ultimo maschile. Il legame strettissimo che unisce il protagonista, la sua gestualità e la tecnica narrativa dell’attore sono così inscindibili che è difficile dire quale elemento sia frutto del lavoro sul personaggio e quale invece sia un espediente tecnico, un’ancora a cui si appoggia l’attore. O per meglio dire: il carattere permea così tanto la narrazione che sembra pressoché impossibile stabilire quale sia “lo stile” dell’autore e quale invece la maschera del personaggio. Con Italianesi però avviene uno scarto: il genere maschile del protagonista permette di riconoscere tratti caratteristici di quello che ora possiamo identificare come lo stile narrativo di La Ruina e che in precedenza avevamo attribuito alle donne delle sue interpretazioni. Qualche traccia, piccoli indizi: una cadenza nella voce, un gesto ricorrente, un uso particolare delle mani, tratti che sono rimasti ed emergono dal nuovo personaggio. Ma al di là di ogni congettura, lo spettacolo scorre, coinvolge; le musiche dal vivo di Roberto Cherillo si fondono con il racconto portando poesia e sonorità balcaniche. La stessa accuratezza la traspone La Ruina nel linguaggio, passando da una lingua stentata al calabrese, perché il dialetto era l’unico italiano che gli uomini del campo conoscevano, “ché l’italiano vero lo parlano solo i dottori”. L’interpretazione di La Ruina resta ancora tra le più vivide della scena nazionale, mostrando una narrazione che narrazione non è, un teatro attoriale, che attoriale non è, ma sublimando i due a un livello altissimo.

     

     

    Krapp’s Last Post | Simone Pacini | 12.12.2011
    Saverio La Ruina: Italianesi in cerca d’identità

     

    E finalmente, dopo mesi di sperimentazioni di nuovi linguaggi e performance multimediali, il teatro! Finalmente, dopo la dittatura del video e del suono e della tecnologia, la scrittura! Ci voleva Saverio La Ruina per farmi rientrare in contatto con un teatro semplice e diretto, impegnato e coinvolgente. […] Come accaduto nei precedenti lavori “Dissonorata” e “La Borto”, La Ruina parte dalla lingua per costruire la sua immedesimazione nel personaggio. Anche Tonino fa il sarto nel campo di concentramento, e vive nell’attesa di avere la possibilità di volare verso l’Italia per raggiungere il padre mai conosciuto. Sogna aerei, città d’arte e musica.Il personalissimo omaggio alle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia di La Ruina prende parte alla Storia attraverso un racconto poco conosciuto ma emblematico, che deve far riflettere sul nostro approccio ai flussi migratori di oggi. Padrone della sua lingua, La Ruina padroneggia anche il suo corpo, facendolo diventare quello di un sarto ingenuo e illuso che ha a che fare con la dittatura albanese. Il mito dell’Italia però gli si scaglierà contro. Nei suoi umili panni di sarto, zoppo a una gamba, La Ruina è decisamente credibile. Incespica sui suoi passi e si aggrappa all’unica sedia che compone la scenografia. Siamo di fronte al corpo come emblema di una tragedia sconosciuta, esempio di vittima dimenticata. Ma il capolavoro di La Ruina, una volta messi a punto voce e corpo, sta nella scrittura. La drammaturgia è precisa, i numerosi salti temporali descrivono bene una storia non semplice da raccontare perché così lontana e dimenticata. E nei passaggi fra macro e micro storia, fra globale e locale, fra politica e vita privata ecco la parte più riuscita dello spettacolo, quella dove gli spettatori possono accostarsi a una vicenda assurda e paradossale da far drammaticamente riflettere. Oltre a questo, un’occasione per osservare con un occhio diverso e romantico il tanto criticato e avversato Belpaese. Nazione che, forse come nessun’altra in Europa, non è amata dal suo popolo, per ragioni a volte giuste ma che spesso sfociano nell’ideologia. La stessa ideologia che ha rinchiuso per 40 anni Tonino e la sua famiglia lontani dal padre e dall’Italia.

     

     

    Teatroteatro.it | Andrea Monti | 02.12.2011
    Italianesi

     

    Una storia dimenticata di internati in un campo di concentramento. Cade il muro di Berlino, si aprono le frontiere blindate dell’Albania e le vicende drammatiche di famiglie spezzate faticosamente si ricompongono. Nessuna eroica accoglienza, nessun ringraziamento o rammarico da parte della madre patria. Il teatro recupera sofferenze e speranze di anime abbandonate al loro doloroso destino. La storia drammatica, affrontata con delicatezza ed ingenuità, diventa comica, toccante, coinvolgente e viva. L’autore costruisce il personaggio del sarto rilevando piccole imperfezione nei pantaloni del pubblico in prima fila, per poi abbandonarsi ad una serie di subordinate che lasciano in sospeso il destino dei protagonisti. Il padre, dal quale viene separato per quaranta anni, il sarto che gli dona il mestiere, la madre con le tasche strappate al marito per resistere alla forzata separazione, la moglie che accetta di essere internata per stare con lui, il figlio Leonino che lo accompagna in Italia… Saverio La Ruina mostra un timore ed un rispetto per il pubblico che ricordano l’atteggiamento scenico e la grande umanità di Troisi. Costruisce le storie partendo dai particolari più minimi. Finge di perdersi per la voglia di raccontarsi, rimanda le spiegazioni esplicitando le intenzioni, costella il testo di ritornelli autistici che ne esaltano la sensibilità. Scivola sulla denuncia delle ingiustizie subite investendo sulle emozioni piuttosto che sulle sue disgrazie. Si commuove e rende molto toccante l’incontro con il padre; il dito che due volte nega al genitore la possibilità di recuperare la mancanza di slancio iniziale è un gesto di una tenerezza assoluta. Candidamente si interroga sulle assurdità del destino che lo vede straniero in Italia e nemico in Albania, quando disilluso torna a visitare il campo che lo ha visto segregato per quaranta anni. Il suo è il racconto della nonna, la mia così parlava della guerra, ricco di immagini, emozioni, speranze, qualche rimpianto e nessun odio, nessuna voglia di rivalsa, di denuncia dei soprusi. L’approccio mite del narratore permette al pubblico di abbandonarsi alla sua vicenda. La sua compostezza incoraggia una identificazione con l’uomo che subisce, che resiste ricordando, che reagisce traghettando il prossimo nel suo inferno pieno di colori. Testo ed interpretazione si fondono dando vita ad uno spettacolo sincero, necessario, teatralmente seducente, umanamente toccante, artisticamente molto appagante.

     

     

    Rubric.it | Elena Grandinetti | 09.01.2012
    Italianesi di Saverio La Ruina al Teatro Valle occupato e poi la tournée continua

     

    […] Una storia struggente di stranieri a prescindere, ispirata a storie vere e finemente raccontata da chi ha avuto orecchi per ascoltare e mani per scavare nei vissuti di gente destinata ad essere italiana in Albania e albanese in Italia. Pochi gli elementi scenici ma il rigore della sceneggiatura e la bravura di La Ruina riescono a riempire bene il palco e i cuori degli spettatori. L’interpretazione dell’attore è finemente studiata: l’uso del corpo diviene metafora del vissuto (Tonino è zoppo ad una gamba), la cadenza nell’espressione denota un realismo che quasi disorienta. A fare da corredo le musiche di Roberto Cherillo eseguite dal vivo e le luci sapientemente pilotate da Dario De Luca. Uno spettacolo da non perdere per chi ama il teatro nella sua forma più autentica.

     

     

    Liberal Mobydick | Enrica Rosso | 03.12.2011
    Storie piccole piccole di Italiani d’Albania

     

    Per Italianesi, in prima nazionale al Teatro India di Roma, Saverio La Ruina è diventato uomo. Gente che vive male in bilico su un piede solo, né carne né pesce ecco chi sono gli italianesi che entrano in scena. Sono storie private, raccontate da un uomo piccolo piccolo, che ancora sta elaborando un percorso: quello che doveva essere un sogno e che invece è diventato un incubo. […] La lingua scelta per la narrazione è un italiano posticcio che sposa le sonorità di un idioma personalizzato, frutto di una commistione di saperi che passa dal cuore prima che dal cervello. Il testo, che in prima stesura era già nella cinquina dei finalisti del Premio Riccione per il teatro 2011, muove e si muove con la consueta garbata, sorniona, insinuante delicatezza descrittiva e a poco a poco si popola di volti e fatti; piccole storie da mettere insieme per comporre il grande affresco di un tempo non troppo lontano. […] Saverio La Ruina, autore, attore e regista, ha una cura estrema per i dettagli psicologici e un amore viscerale per le sue creature: non le espone mai nude, ce le presenta nei dettagli, ma mai scoperte, aggredibili, così dichiaratamente fragili da imporre allo spettatore una gentilezza nell’ascolto. Cambiato il musicista compositore, non più Gianfranco De Franco ma Roberto Cherillo che intravediamo dietro un velatino eseguire dal vivo cadenze e ritmi, suggerendo atmosfere e amplificando lo spazio immaginativo. E’ cambiata anche la sedia – quella di oggi ricorda sì una vecchia sedia impagliata, ma la griglia della seduta è formata da fasce metalliche e le due rotelle posteriori oltre a renderla instabile, ne facilitano gli spostamenti. E’ insomma, già da sola, parte del raccontare: scomoda e itinerante, in perenne instabile avvicinamento a una postazione che idealmente diventa l’Italia con il suo luminoso fascio verde-bianco-rosso che pare la scia che resta in cielo dopo il passaggio delle frecce tricolori del 25 aprile.

     

    Paesesera.it | Valeria Merola | 29.11.2011
    La Ruina mette in scena “Italianesi”. Il dramma degli italiani in Albania

     

    Una storia dimenticata, sepolta sotto le macerie della seconda guerra mondiale e sfuggita alla memoria collettiva. Eppure una storia ancora molto attuale, che scopriamo più vicina di quanto non avremmo potuto immaginare. […] Con un filo di voce, amplificata dal microfono che consente di apprezzare le minime inflessioni e le sfumature dell’accento calabrese, l’attore e autore si cala nei panni di Tonino[…] Non mancano gli spunti comici ed ironici in un monologo per il resto molto teso, da cui emerge il dramma di questi figli, perseguitati perché italiani in Albania ed emarginati come albanesi, una volta arrivati in Italia. Pur raccontando una vicenda tragica, l’interpretazione di Saverio La Ruina ha l’immediatezza dell’oralità, di cui riprende l’andamento circolare della memoria. Al centro di una scena vuota, l’attore si pone come una presenza dalla fisicità rigida, che contrasta volutamente con la fluidità e con la plasticità delle parole, introdotte dal ritornello «comincio a ricordare». E il flusso dei ricordi si articola in quadri dai colori luminosi, gli stessi che Tonino immaginava chiudendo gli occhi, per staccarsi, almeno per un attimo dallo squallore di quel «grigio e verde, i colori della merda», che vedeva ovunque nel campo di concentramento. […]

     

     

    Le Grandi Dionisie | Mauro Sole | 03.12.2011
    Italianesi

     

    Il mito del ritorno nel proprio paese d’origine, l’Italia, e la fuga dalla tragedia dittatoriale di un paese quale l’Albania, è il tema di questa commovente storia firmata Saverio La Ruina. Drammaturgo e attore tra i più interessanti della scena contemporanea, La Ruina, da solo, nella sala con una sedia di ferro dalla quale si alza e si siede con disinvoltura, si presta alla leggerezza interpretativa di Tonino, il protagonista del racconto[…] La tenerezza del ricordi d’infanzia, l’immagine di un paese fatto di pittori, musicisti e cantanti quale l’Italia raccontata dal padre di Tonino vibrano senza inceppi nella voce amplificata dal microfono e nel corpo di La Ruina, che rende a sua volta una costante fluidità e una profonda percezione della storia nello spettatore rimasto incollato, grazie anche all’interrotto intercalare calabrese dell’attore che suscita anche la risata ad ogni specifica sfumatura, anche sulla soglia dell’episodio tragicomico. Una partitura studiata a fondo, ma della quale non trapela minimamente la fatica per il senso di ritmicità che lo spettacolo stesso costituisce. Ogni momento può diventare un grande immaginario che ci lega al protagonista. […] Senza alcuna piega sentimentalista, uno spettacolo toccante, tratto da una storia vera, cui come ultimo merito, vanno riconosciute le bellissime musiche eseguite dal vivo di Roberto Cherillo.

     

     

    Teatro.org | Alessandro Grieco | 30.11.2011
    Agli angoli della vita

     

    […] “Italianesi”, già finalista all’edizione 2011 del Premio Riccione per il Teatro, racconta le periodiche e violente persecuzioni dei soldati e dei civili italiani intrappolati in Albania con l’avvento del regime dittatoriale[…] Come il protagonista della coinvolgente messinscena, con l’accusa di attività sovversiva ai danni del regime, la maggior parte degli “italiani” fu condannata a quarant’anni di dura prigionia […] La Ruina, in un singolare impasto vernacolare che non rinuncia mai alla vocazione affabulatoria, insegna, con un’eleganza formale capace di piegarsi all’invettiva come alla chiacchiera da bar, a non impigrirsi di fronte alla superficialità delle grammatiche contemporanee ed infatti anche le vicende più dure, accompagnate dalle musiche di Roberto Cherillo, parlano la lingua della poesia e sono tessere di un originale mosaico lirico-lessicale cherecuperando in maniera evidente la narrativa di Carmine Abate, ci ricorda che la libertà è come l’aria , quando non c’è, ti manca.